Recensione "Che razza di libro!" di Jason Mott (NNeditore)

Che razza di libro è questo romanzo che si intitola Che razza di libro! e che parla di uno scrittore che ha appena pubblicato un apprezzato romanzo intitolato, appunto, Che razza di libro! Il gioco di parole è scontato, ma descrive perfettamente la sensazione che si ha durante la lettura. La traduzione del titolo in italiano, peraltro, è ancora più geniale – per una volta – dell’originale in inglese (Hell of a book): qui si richiama, infatti, direttamente il concetto di «razza» che, assente nell’originale, costituisce uno degli assi portanti del romanzo.

Perché Che razza di libro!, romanzo di Jason Mott tradotto in italiano per i tipi di NNE, non è solo, come vorrebbe la bandella della copertina, la storia di uno scrittore di successo – erotomane e affetto dalla sindrome dell’immaginazione iperattiva, che lo porta a non riuscire a distinguere, come nei diversi piani del racconto del romano, realtà e immaginazione – e del suo incontro con un ragazzino dalla pelle nerissima, invisibile a chiunque a esclusione del narratore. E non basta neanche aggiungere, alla trama, la vicenda di un bambino, soprannominato Nerofumo perché la sua pelle è scurissima, a cui i genitori hanno insegnato il dono dell’invisibilità. Il romanzo di Mott, infatti, è una divertentissima quanto amarissima riflessione sul colore e sulla frattura del razzismo che spacca la società statunitense: lo stesso tema dell’«invisibilità» – un’invisibilità impossibile perché il colore è forse, in assoluto, una delle caratteristiche più «visibili» tra quelle fisiche che sono all’origine di pregiudizio e discriminazione – richiama quello della «protezione» e della «sicurezza». Ma se sei nero negli Stati Uniti non ti senti sicuro né protetto: del resto, ai neri non è concesso il privilegio bianco di vivere un’esistenza in cui il colore della propria pelle sia considerato la “norma”. Lo scrittore protagonista, di cui non si conosce il nome, è anch’egli nero: ma sembra quasi rifiutarlo, come rifiuta di prendere posizione sul tema di cui tutti parlano, su “quello che è successo”, cioè sull’ennesimo ragazzino nero ucciso senza motivo da una polizia razzista. Giornalisti e presentatori televisivi, ma anche conoscenti e semplici passanti, chiedono al protagonista di pronunciarsi, di dire la sua, ma lui glissa, non vuole guardare direttamente a quanto è accaduto, probabilmente perché preferisce non affrontare il trauma dell’essere nero negli Stati Uniti. Al trauma, alla Paura – con la P maiuscola, come nel libro – il protagonista-scrittore reagisce quasi con un sentimento di rigetto, al punto che anche i suoi lettori più benevoli non possono far finta di non notare che «nel libro non c’era niente sulla condizione dei neri. Non c’era niente sull’essere nero» (p. 77). Eppure, il protagonista si rende conto, in un passaggio che richiama direttamente il movimento Black Lives Matter, che «nel frattempo, […] sfila l’eterno corteo di bambini, con i loro cartelli, i pugni alzati, e gli slogan sulla giustizia, sulla violenza della polizia e sul razzismo, e su quanto contano le vite dei neri (ogni generazione di neri nasce con il fardello di questo capolavoro americano) e io non li sento, con il rumore delle vendite imminenti del mio libro. Mi concentro sulla gente che è venuta a darmi i suoi soldi. Dopotutto non sono un attivista, non sono il tipo di autore le cui parole potrebbero smuovere certe acque. Una cosa mi ha insegnato il mio mestiere: quella roba ammazza le vendite. No, io non sono uno di quelli... sono un professionista» (p. 81).

È la stessa industria editoriale a richiedere al protagonista-lettore una narrazione pacifica e accomodante per il lettore, un «libro leggero», senza conflitti, senza tragedie. Come gli ribadisce la sua agente letteraria, in un geniale passaggio che evidenzia le storture dell’industria editoriale occidentale:

Il futuro di questo paese sta tutto in una lingua patriottica e unificatrice. Post-razziale. Trans-segregazionista. Epi-traumatica. Alt-riparatrice. Omni-risarcitoria. Sciovinisticamente body-positive. Sociocultural-trascendentale. Indigeno-revisionista. Perpendicolare al trattato di Fort Laramie. Meta-assolutoria. Pan-politica. Über-intermutuale. Neo-MLK. Bucolica semi-arcadica. È il vernacolo del destino inclusivo, col trattino, sfacciatamente americano, quello che stiamo svelando qui! Tu e io! Lo stiamo realizzando un libro dopo l’altro! Ma non si realizzerà piantando bandiere e stuzzicando le ferite di una certa fascia demografica espropriata e culturalmente neo-globalizzata per mano di quella che forse un tempo è stata un’indecente proto-nazione. […] Scrivi dell’amore. Amore e finali alla Disney. Non della sofferenza. Non dell’oppressione. Non della paura. Non delle ingiurie del passato... immaginarie o documentate. Non della delusione. Non della morte. Mai della morte. Solo dell’amore. (pp. 105-106)

Nello svolgimento del romanzo, il suo confronto del protagonista-scrittore con il ragazzino invisibile conduce però il primo a una sempre maggiore presa di coscienza del proprio essere nero: dalla brutalità e dal razzismo della polizia negli Stati Uniti, infatti, non si può fuggire. E non si può fuggire alla Paura, anche se si è cercato di nasconderla in ogni modo dentro di sé:

La Paura. Era quella la cosa davvero pericolosa. Mi teneva un pugno nello stomaco e non mollava. Avevo la sensazione che il mio corpo non fosse più mio. Che forse non era mai stato mio. Che potevano portarmelo via in qualsiasi momento e io non potevo farci niente. La cosa peggiore era che non avrei mai potuto farci niente. Ecco cos’era la Paura, alla fine. Da cosa derivavano tutte le paure delle persone con la pelle di un certo colore che vivevano in un certo posto. Ma non era solo una paura, era una verità. Una verità dimostrata da generazioni. Una verità tramandata attraverso il mito e il mandato politico, dal passaparola alla legge. Ci sono corpi che non sono di chi li abita. Non lo sono mai stati e non lo saranno mai. Una verità persistente, inevitabile, spaventosa, conosciuta da milioni di corpi sfollati. La Paura. C’era sempre stata, ma ora riuscivo a vederla. A riconoscerla. E quando succede, quando la vedi, non puoi più distogliere lo sguardo. Non puoi zittirla. Non puoi mai dimenticare che non appartieni più a te stesso, ma alle mani, ai pugni, alle manette e ai proiettili di uno sconosciuto. (p. 128)

Il messaggio del romanzo, però, non è di accettazione di una realtà immutabile. Nonostante la costante paura in cui si vive, si può imparare ad accettarsi come neri e ad amarsi, anche se non è facile: «Credo che imparare ad amare te stesso in un paese dove ti dicono che sei una piaga per l’economia, che non sei altro che un potenziale carcerato, che la tua vita ti può essere tolta in qualsiasi momento senza che tu possa farci niente... imparare a volersi bene in tutto questo? Cazzo, è un miracolo» (p. 302).

Che razza di libro! rappresenta tanto il ritratto brutale e senza compiacenza di una nazione quanto un appello a cambiare le cose: è probabilmente una delle cose più interessante che potrete leggere nel 2022.