«Che poi chissà quanto è davvero autobiografico…». Così, qualche giorno fa, una persona con la quale mi scambio spesso consigli di lettura commentava Niente di vero, il libro di Veronica Raimo uscito a inizio febbraio: dopo la lettura, la curiosità resta e il nodo del rapporto tra la negazione del titolo e il contenuto, che rimanda inevitabilmente al racconto autobiografico o, meglio, al memoir, non sembra sciogliersi. Perché, se è vero che Raimo stessa ne parla come di un «romanzo» in cui si muovono personaggi veri e personaggi inventati, è altrettanto vero che «forzare» la realtà non significa scrivere un’opera di fantasia.
Nel libro di Raimo si muovono amici e amiche, amanti, fidanzati ed ex, qualche personaggio dell’editoria e, soprattutto, i suoi familiari: il nonno, la madre, il padre e il fratello Christian – scrittore anche egli, assessore municipale e personalità abbastanza conosciuta nell’area metropolitana di Roma –, con le loro nevrosi e la loro umanissima limitatezza, costruiscono i poli di una narrazione che l’autrice stessa, definisce un libro «sulla nostra [sua e di Christian] famiglia». È una narrazione che, per quanto disincantata (ma mai cinica), risulta essere piena di affetto, a dimostrazione del fatto che non sia sempre indispensabile impegnarsi a non mettere a disagio le persone a cui vogliamo bene. Per quanti, a ragione o a torto, possono essere indentificati nelle sue pagine, questo libro, infatti, non rappresenta probabilmente una confort zone, sebbene la tenerezza emerga in ogni pagina: il risultato di questo iato è un racconto comico e brillante, che provoca improvvise esplosioni di risa in chi legge.
La vita di Veronico Raimo non ha nulla di eccezionale, nulla di straordinario: per quanto ciò non implichi che sia banale, la scelta di metterla nero su bianco in questi termini prende le distanze da gran parte della letteratura – e dell’autopromozione – contemporanee, che invece vedono nella storia di ciascuno di noi qualcosa di unico e irripetibile. Del resto, Raimo è abituata – come scrive – a non essere riconosciuta pressoché da nessuno (neanche da sua madre…) e a scambiarsi articoli col fratello, subappaltandosi – gratis o a pagamento – vicendevolmente «articoli, recensioni, prefazioni, postfazioni, punti di vista da scrittore sul ritorno dei leggings o sulla fine del romanzo, persino interi racconti e ispiratissimi versi»: «Se la gente leggeva i nostri scritti e non si accorgeva della truffa, non è perché i nostri stili si assomigliassero o perché fossimo abili camaleonti, ma perché in fondo a nessuno fregava nulla. In un certo senso era terapeutico, una forma di spersonalizzazione, di ridimensionamento dell’io. Potevamo pure continuare a coltivare il nostro narcisismo da scrittori, ma avevamo le prove che si trattava di un’illusione», scrive con consapevolezza.
Il linguaggio è diretto, e non potrebbe essere altrimenti per una scrittrice che viene da una famiglia in cui «usavamo tutti le parolacce» e nella quale esse «facevano parte del kit base per una comunicazione ordinaria». Nella loro crudezza o nella loro banalità, nel libro aneddoti ed episodi vengono narrati per quello che sono: ne viene fuori un racconto buffo, anzi buffissimo, in particolare nelle parti in cui parla del fratello, che potrebbero costituire quasi un genere letterario a sé. Come buffa potrebbe essere l’esistenza di ciascuno, se solo si avesse il coraggio di porsi nella posizione di chi la guarda esternamente, senza l’autocompiacimento e il narcisismo del vittimismo.
Raimo, infatti, sembra voler discostarsi proprio da quel paradigma vittimario che è una delle cifre della contemporaneità: non è detto che un episodio spiacevole sia per tutte e tutti un trauma (o che lo sia per chiunque allo stesso modo) né che i traumi non si possano rielaborare e superare. «A volte scriviamo non per elaborare un lutto, ma per inventarlo»: così mette in guardia l’autrice e non le se può certo dar torto. Anche quando racconta delle molestie ricevute da un lontano zio, lo zio Uccio, lo fa con ironia, senza elevare a trauma un episodio che non ha vissuto, o che non ricorda, come tale.
Mi fissò come se fosse l’inizio di un grande dialogo.
– E non lo vuoi pettinare a tuo zio?
Si tirò fuori il cazzo dai pantaloni rendendomi difficoltoso il nesso con il riportino, il che comportò qualche istante di esitazione prima che buttassi il pettine a terra e scappassi fuori dal bagno perché comunque ero una ragazzina che ci teneva alla logica. Lui biascicò un paio di oscenità che non afferrai benissimo, un po’ per via del dialetto, un po’ per il tono di voce soffocato visto che al piano di sopra c’era comunque sua moglie, e poi salì senza essersi nemmeno dato una sistemata ai capelli.
Non raccontai a nessuno del cazzo di zio Uccio.
Non c’entrava la vergogna o la rimozione, tutt’altro. In realtà ero felice che fosse successo. Mi aveva dato il pretesto ideale per continuare a odiare in silenzio quella casa e le mie estati in Puglia.
Eppure, dietro la leggerezza con la quale vengono raccontati aneddoti come questi, ci sono anche dolori. Ferite aperte. Lo si capisce nelle pagine in cui parla della fine dell’amicizia con Cecilia (e a una Cecilia il romanzo è dedicato…). Senza litigi, senza discussioni laceranti, senza punti di rottura visibili. E, per questo, ancora più inspiegabile e insuperabile, ferita che non può cicatrizzare: «“Io e Cecilia ci siamo allontanate” è il modo più semplice per dire qualcosa che non si sa spiegare. Eppure dentro di me sento di avere le ragioni, o meglio temo di averle, e ripenso allora a quella frase nella mail: “Avevo proprio paura, come di un tradimento”».
La domanda sul confine tra verità e finzione, alla fine, non si può eludere. Ma niente è mai vero, neanche ciò che si sembra appartenere alla nostra memoria, soprattutto se, come nella famiglia di Veronica Raimo, ciascuno sabota la memoria altrui per il proprio tornaconto, oppure come esercizio di stile. Manipolazioni della realtà che finiscono col diventare esse stesse reali, dimenticando «la menzogna iniziale o il fatto stesso che si tratti di una menzogna». L’autrice conclude il romanzo, alle ultime pagine, con una riflessione proprio sulla memoria: «La memoria per me è come il gioco dei dadi che facevo da piccola, si tratta solo di decidere se sia inutile o truccato». Inutile o truccato che sia, il gioco di memoria che riempie le pagine di Niente di vero è uno degli esperimenti più riusciti nella letteratura italiana degli ultimi tempi.